Definire e mantenere aggiornati i messaggi chiave che devono caratterizzare la comunicazione di un’azienda è imprescindibile. Ne abbiamo già parlato qualche tempo fa. Ma è altrettanto importante, allorché si passa alla fase “esecutiva”, saperli trasferire – come ogni altro contenuto della comunicazione – in modo chiaro e inequivocabile.
Anche se non l’unica, una regola inderogabile è quella di adeguare la scelta del linguaggio ai destinatari ai quali, di volta in volta, ci si rivolge.
Non di rado, tuttavia, questo fondamentale principio viene colpevolmente ignorato. Capita, così, che di fronte a platee o interlocutori non specializzati, manager e imprenditori esperti e qualificati non resistono alla tentazione di illustrare argomenti chiave utilizzando un linguaggio tecnico o un gergo settoriale: a volte per conferirsi autorevolezza e professionalità, altre perché “navigare nel proprio mare”, spesso, rappresenta la via più breve e comoda da seguire.
Quale che sia la ragione, però, il rischio è di risultare poco comprensibili e di generare confusione, rendendo i propri messaggi inefficaci o, peggio, esponendoli a interpretazioni errate da parte di chi deve recepirli.
Chiarezza, innanzitutto!
L’uso di tecnicismi, anglicismi, acronimi o altri neologismi convenzionali propri di uno specifico contesto professionale è senz’altro legittimo e necessario per comunicare con chi, di quel contesto, fa direttamente o indirettamente parte. Ma può risultare ostico per chi ne è fuori. E talvolta – a chi ascolta – può sembrare quasi un modo di nascondersi. In tanti contesti, quindi, è molto meglio evitare atteggiamenti da “professore” in favore di una terminologia più accessibile.
Facciamo qualche esempio. Non è detto che un giornalista, pur consapevole delle dinamiche generali di un settore o argomento, ne conosca a fondo le specificità. Se abitualmente scrive di attualità su un quotidiano generalista, e sta raccogliendo il parere di un esperto sul fenomeno della violazione dei dati digitali, potrebbe restare interdetto nell’apprendere che i rischi principali derivano da episodi di “data breach” e “data leakage”. Nella migliore delle ipotesi potrebbe chiedere delucidazioni e questo risolverebbe il problema. Ma potrebbe anche non cogliere l’importanza di quel messaggio, oppure non voler mettere a nudo una propria carenza (succede!), preferendo in entrambi i casi scartare l’informazione. O, ancora, potrebbe fraintendere e riportare male. Per evitare questi rischi, sarebbe indubbiamente molto più semplice parlargli di “furto” o “fuoriuscita di informazioni personali”.
Allo stesso modo, dipingere un servizio o un prodotto come “customizzabile” potrebbe non far comprendere al possibile acquirente che è perfettamente adattabile alle sue specifiche necessità. E neanche affermare che migliora i “KPI” aziendali, probabilmente, darà – ad esempio a un piccolo imprenditore – l’idea che può incrementare le prestazioni di alcuni processi interni della sua fabbrica.
Sembrano esempi estremi, eppure sono tipiche situazioni di cattiva scelta del linguaggio. Col risultato di vanificare l’importanza di aspetti che possono marcare la differenza a proprio favore.
Giocare d’anticipo
In circostanze simili a quelle descritte, è buona regola informarsi in anticipo sul profilo e sulle caratteristiche dei propri interlocutori: quali sono le competenze di chi sta chiedendo un parere o un approfondimento su un tema specifico? Da chi è composta – almeno in prevalenza – la platea del convegno a cui si è stati invitati per presentare il punto di vista dell’azienda? E quanto sono diventate ancora più importanti le risposte a queste domande con il boom dei business meeting individuali e di conferenze e seminari su piattaforme digitali?
Senza dimenticare quanto è importante la scelta del linguaggio nelle forme di comunicazione scritta, ad esempio per una brochure o un profilo aziendale…
In quest’ottica potrà rivelarsi prezioso il supporto di uno specialista della comunicazione con cui confrontarsi preventivamente per valutare le scelte più idonee per ciascuna situazione.